Nerolana

Nerolana


V

Frattanto, fuori dalla torre, il principe Testadilegno prendeva molto freddo. La nuova lunga attesa, frustrate le speranze, l‘aveva debilitato: anche lui era molto smagrito. Unico rifugio in quella vasta solitudine che lo circondava, lontano dalla patria, accampato sotto la torre ed esposto al vento gelido che lontane montagne riversavano, solo in parte trattenute e mitigate dalla fitta boscaglia, era il suo cuore. A questo si scaldava raccogliendosi, stendendo le mani sopra al fuoco d’amore che dall’interno lo ravvivava. Di lì attingeva calore sufficiente per sopravvivere alla ghiaccia tramontana e affrontare il nuovo inverno che tappeti di foglie autunnali, posandosi tutt’intorno, gli preannunciavano. “Così non può andare” diceva il principe, sfregandosi le mani: “La mia regina ancor tarda e nulla sembra preannunciarne l’arrivo imminente. Sono al freddo, stanco e solo. Per quanto ancora dovrò attendere?”. Provato da molti dubbi e pensieri che lo stringevano da ogni lato, il principe, coricatosi, appoggiò la schiena al suolo, scivolando lentamente in un sonno profondo verso il termine del quale si trovò nel bel mezzo di un sogno. Lì vide un servo avvicinarsi e rivolger lui parole cortesi: “Principe, a te ogni onore e lode! Ho un messaggio da parte del Re”. E srotolata una pergamena, il servo incominciò a leggere: “Principe, torna indietro! Con un semplice schiocco di dita potrai scegliere chi si stenda al tuo fianco, perché allora affaticarsi tanto? Guarda quante donne più degne ti aspettano: vuoi tu forse deluderle? Su, torna al tuo regno dunque! Perfino gli animali ti attendono”. Ma il principe, sdegnatosi, non diede il tempo di finire che a male parole scacciò via il servo: “Servo bugiardo, tu non conosci la mia fedeltà! L’amore non è più per me questione di comodo guadagno: ma attesa e desiderio di mia somma ed altrui felicità. Ma se questa ha da passare per le porte del gelo, dell’angoscia e del travaglio; se per ottenerla ho da trascorrer cinquecento inverni accampato in questa landa di smarrimento, ai piedi di una sola torre, volentieri li passerò, ed anche oltre! Così quel diamante che ho nel cuore mi comanda. Ora sparisci, servo infedele: non il mio re ti manda! Tu con l’astuzia vuoi tentarmi e col pronto amo del facile piacere ridurmi a desistere dal mio assedio”. Quel servo allora, mordendosi le labbra, scomparve ai suoi occhi e il principe si destò, come colto da improvviso lampo esclamando: “Ora vedo il da farsi! Questo sogno me lo ha mostrato. La mia regina non vuol scendere perché un malvagio e bugiardo, travestito da servo, la tiene segregata da anni nell’ alta stanza con fitta trama d’inganni. Conosco bene quel servo demoniaco, perché un tempo avvolgeva anche me nelle sue spire, ed ora è tornato a disturbarmi in sogno per mandarmi via da qui e impedirmi di liberarla. Se dunque la mia bambina non può scendere da sé, salirò io da lei!”. Ciò detto il principe Testadilegno cominciò a passeggiare avanti e indietro, indietro e avanti, stimolando il proprio ingegno per trovar la via migliore per affacciarsi alla finestra di Nerolana, che si trovava tanto in alto. Grandi sbarre di ferro chiudevano la porta d’entrata e i mattoni umidi e scivolosi della torre parevano impossibili a scalarsi. Nondimeno il principe provò ad arrampicarsi, ma ogni volta ricadeva a terra sotto il proprio peso. Ogni tentativo gli causava nuovi dolori ed il principe si trovò presto con le ossa rotte. “E’ inutile” pensava “per questa via non ottengo che capitomboli”. Allora tentò aggrappandosi all’edera che, sbucando da terra, saliva attorcigliandosi alla torre fino ad addensarsi di fronte alle grate della finestra, laddove il principe arrampicatosi giunse finalmente all’altezza della stanza: ma troppo fitto era l’ingombro di rami ivi attorcigliati e non potendo farsi largo, dovette ridiscendere. Affranto da quel nuovo fallimento il principe batteva forte i pugni a terra e lamentandosi riempiva l’aria di gemiti. Tanto forte era il desiderio di poter vedere la ragazza che perfino il bosco vecchio, fino ad allora muto ed insensibile, piegò i rami per confortarlo. “Principe caro” lo consolava “Non disperare. Ogni cosa a suo tempo. La persona che tu vorresti liberare da molti anni è nelle mani del suo aguzzino e il tuo impeto, se pur nobile, non basterà a salvarla. Anche se sei un principe, vedi bene quanto sei debole. Ti consiglio pertanto di stringer alleanza con chi è molto più forte e antico di te. Volgi al cielo le tue preghiere: lì vi abita un padre vigilante che ama molto i figli: certo non mancherà di aiutare, solo che lo desideri fortemente”. Il principe, confortato dalle parole con cui il bosco vecchio lo aveva rincuorato, non mancò di seguirne il consiglio. Era un principe dimesso e solitamente dava ascolto a chi se ne intendesse. Raccogliendosi allora ai piedi di una gran quercia, incrociando le gambe e sgombrando la testa d’ogni distratto pensiero, formulò nel proprio cuore questa richiesta: “Padre del cielo, re onnipotente, tu che sei in tutto ma umile in tutto ti nascondi, tu che mantieni con spirito d’amore miliardi di universi come un bimbo fa una bolla di sapone, ascoltami! Guarda la crudele prigionia con cui un servo tuo infedele costringe in catene una scintilla sperduta del tuo amore: lassù in quella stanzetta, il tuo sole più non brilla, l’aria fresca non penetra. Squarcia, ti prego, l’edera che avvolge la sua finestra, fa che il tuo raggio passi e risplenda. Temo tanto per la sua salute: padre caro, ti prego, aiutala!”. Tali preghiere il principe non smetteva di alzare al cielo notte e giorno in attesa di un segno favorevole. Quand’ecco, all’alba decima, un fumo sottile levarsi in alto presso la finestra: un raggio di sole stava bruciando il groviglio di rami avvolti. Esultante il principe non esitava ad arrampicarsi veloce su per l’edera spessa che gli offriva facile appoggio e giunto presso la stanza, tenendosi bene ai rami, accostava l’occhio allo spiraglio che il calore frattanto apriva; ma guardandovi dentro – quale orrore! La ragazza, avvolta in un bozzolo, pendeva a testa in giù: quelle grosse aracnidi l’avevano completamente attorcigliata nella loro fetida saliva; solo una flebile luce emanava lampi intermittenti e bluastri attraverso quell’armatura di bava, lasciando intravedere fra gli sguardi di quei ragni velenosi il diamante che la teneva ancora in vita. Il principe svenne per l’orrore e cadendo indietro a precipizio rimase come morto, accasciato ai piedi della torre. Quando dopo molte ore si riebbe, l’orrore si ridestò con lui e al pensiero di ciò che aveva visto, come disperato, stracciando le vesti principesche si gettò faccia a terra presso la gran quercia moltiplicando preghiere e gemiti: “Padre, tu non voglia! Abbi pietà di lei! Liberala, salvala! Non venirle meno! Sono un nulla per chiedertelo, non ho nulla da darti in cambio, ma prendi il mio cuore, te lo offro volentieri! Prendi la mia vita, il mio sangue, che m’importa! Ma lei non scordarla! Salvala, salvala!”. Così prostrato, pregando e piangendo, il principe versava molte lacrime, che come piccoli ruscelli cominciarono a scorrergli intorno. Alcuni irrigavano le radici della quercia, che bevendo buttava fuori nuovi rami al posto di quelli vecchi e già seccati; altri facevano sbocciare al loro passaggio gigli, agapanti, violette e fiorellini di ogni genere.




Quando il principe, sazio di pianto, alzò di nuovo il capo smoccolando e asciugandosi gli occhi, gli parve di trovarsi in un delizioso giardinetto che prima non aveva notato, e si sentiva così leggero che avrebbe quasi creduto di poter attraversare le dure pareti della torre, prendere in braccio la ragazza e portarla via con sé senza fatica; la sensazione tuttavia non durò che un breve momento.
Intanto le sue lacrime avevano piegato il favore del cielo: un nuovo fascio di raggi solari stava infatti incenerendo e seccando l’edera spessa attorcigliatasi intorno alle grate della finestra e aprendovi ampi squarci la luce poté tornare a penetrare irraggiando l’atmosfera cupa e polverosa della stanza. I ragni, messi in fuga dal calore solare che più d’ogni altra cosa detestavano, dicevano allarmati l’un con l’altro: “Presto, al piano di sotto! Continueremo i lavori a notte fonda”. Nel frattempo una brezza leggera stava ripulendo l’ambiente dello spesso strato di polvere in quel tempo d’inedia accumulatosi, mentre alcuni uccellini si occupavano di tagliare col becco le fitte ragnatele che pendevano d‘ogni parte. Ordinata la stanza, il bozzolo contenente la ragazza, grazie allo sforzo congiunto di uno stormo di rondini, fu adagiato lentamente sul letto e a colpi di becco diligentemente sminuzzato. Nerolana giaceva ora addormentata, libera dall’orribile involucro e il suo aspetto aveva ripreso colore. Quella triste prigionia tuttavia l’aveva a tal punto provata che prima di riprender conoscenza dovettero trascorrer alcuni giorni. Il principe frattanto, aspettandone trepidante il risveglio, ringraziava ad ogni ora il cielo per l’opera compiuta e si arrampicava continuamente alla finestra per contemplare il viso dolce e riposato di quell’amore tanto a lungo desiderato. Trascorsi che furono quindici giorni, Nerolana si riebbe. Nulla ricordava della prigionia passata ed il servo ebbe buon gioco nell’assecondarla in quella dimenticanza: “Buongiorno!”, le aveva detto raggiante: “Ben svegliata! Che lunga dormita hai fatto: si vede proprio che eri stanca! Goditi questa bella giornata: molti nuovi giochi ha da proporti la tua stanza”. Nerolana si sentiva allora particolarmente serena e tranquilla. Le pareva che nulla potesse ostacolare il senso di pace che la inondava, lasciandole il sentore di una felicità che, chissà come perduta, ricominciava adesso ad assaporare. Il servo astuto, indovinando il suo stato d’animo, le nascondeva la verità: “Te lo meriti, te lo meriti proprio: questa gioia ti appartiene fin nel midollo. Sei una bambina tanto brava ed ubbidiente: goditela fino in fondo!”. A Nerolana piaceva essere adulata con queste parole e finiva per crederci. Quando dunque tornò ad affacciarsi alla finestra, vedendo ancora ai piedi della torre quel forestiero smagrito che si sbracciava agitando le braccia e schioccando baci al suo indirizzo, colta da profondo fastidio gli gridò: “Insomma, non vuoi proprio capirlo!? Io sto bene qui, voglio godermi la mia stanza da sola! Qui trovo pace e tranquillità e non voglio privarmene dividendola con nessun altro!”. Tali parole quella proferì, ignara d’ogni accadimento. Il principe Testadilegno, che da tempo si aspettava parole d’opposto tenore, era tanto convinto di averle ascoltate che in un primo momento quasi non si accorse quanto a fondo nel cuore la ragazza gli avesse conficcato quella lama di gelidi discorsi, cosicché, pur straziato, la giustificava dentro di sé dicendo: “Sarà solo un po’ arrabbiata”.
In realtà, Nerolana non si era affatto decisa a scendere e l’ondata di nuova luce era valsa a rischiararle ancor per poco l’atmosfera nella stanza, prima che i ragni al calar delle tenebre tornassero a dispiegar le loro tele.


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