Nerolana

Nerolana


IV


Trascorsero altri giorni, poi settimane, infine mesi. Il principe era stanco di attendere, desideroso di riposarsi. Da tempo mancava al suo regno e quell’ostinazione gli era valsa solo molti rimproveri da parte dei cortigiani: “Perché non torna?” si chiedevano. “Perché ostinarsi?” mormoravano. Frattanto alcune donne dal villaggio vicino, appreso che un principe era nei paraggi, avevano mandato i loro servi per persuaderlo a desistere dall’infruttuosa impresa: “Prendi noi altre” gli riferivano da par loro: “dimenticala!”. Ma il principe Testadilegno non voleva saperne e respingeva quelle proposte: non aveva dimenticato il primo sguardo che Nerolana, un tempo che pareva ora tanto lontano, gli aveva mandato dalle grate della sua finestra ormai nascosta dall’edera. Era triste, ma l’amore lo sosteneva, trovando in esso ogni conforto, speranza e forza per perseverare. Se l’amore gli fosse mancato, se non gli avesse continuamente annaffiato le radici del desiderio, già da tempo avrebbe rinunciato, dicendo a sé stesso: “Quella ragazza non mi merita”. Ma davvero allora sarebbe stato solo un forestiero di passaggio desideroso di occupare la sua stanza. Era un principe invece, dell’antico lignaggio dei Testadilegno; ingenuo e poco saggio: l’amore solamente lo spingeva.
Era alle porte il quattordicesimo compleanno di Nerolana, che a guardarsi però mostrava un aspetto orribile. Nei bulbi dei suoi capelli color grano raccapriccianti ragnetti si moltiplicavano e facevano tana; i suoi occhi un tempo vispi e sereni erano infossati, le palpebre assimilate a ciò che da troppo tempo ormai i suoi occhi rimiravano; un velo grigio aveva scacciato l’azzurro dalle pupille e il corpo disteso, rigido e secco fino all’osso eran spettacolo orribile a vedersi: pareva un cadavere dimenticato sopra a un letto di ragnatele. Perfino i ragni fra di loro lamentavano: “Abbiamo lavorato troppo in fretta! Se continua a dimagrire così, non avremo di che gustar la nostra cena!”. Ma al servo malvagio le loro parole non interessavano: lui bramava soltanto la preziosa pepita diamantina incastonata fra le costole nel cuore, palpitante a fior di pelle, unica luce ancor rimasta a rischiarare un poco l’orrore di quelle tenebre. Nerolana giaceva immobile e senza quasi più pensieri, a tal punto ottenebrata da credersi lei stessa un ragno. Se qualcuno l’avesse schiacciata, non avrebbe protestato: tanto poco pensava di valere. Se il servo avesse potuto squarciarle lo sterno, mentre era in vita, per rovistarvi dentro in cerca del diamante, ella non avrebbe levato che un flebile gemito di pianto: a tal punto accondiscendeva con chi per anni astutamente l’aveva ingannata, anestetizzata e tenuta prigioniera. Eppure – orribile a dirsi – la ragazza serbava così grande gratitudine verso il suo servo, che ogni qualvolta quello entrava nella sua stanza per portarle alla bocca un cucchiaio di qualche oscena brodaglia, il minimo per tenerla in vita, Nerolana lo guardava dolcemente sussurrando: “Come sei buono, servo mio caro: da quando son bambina vieni incontro a tante mie esigenze soddisfacendo tutti i miei desideri. Con te nulla mi è mai mancato”. E quel perfido l’assecondava: “Guai, padroncina mia, guai a chi volesse sottrarti alle mie cure! Scatenerò mille inferni contro chi ardisca a portarti via: chi meglio di me infatti saprebbe darti ciò di cui hai bisogno e desideri?”. E così dicendo accarezzava i suoi capelli con mani scheletriche, imprimeva baci screpolati sulla sua candida fronte, e come per confermargli quanto le volesse bene si accasciava ai piedi del letto piangente: ma al posto di lacrime sgorgavano fuori insetti d’ogni specie.



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