Nerolana

Nerolana


III

Il principe intanto non aveva smesso di pensare alla ragazza un momento e da quel giorno cominciò ad appostarsi sotto la sua finestra per carpirne uno sguardo, un’occhiata d’intesa, un cenno di favore per cui irrompere nella torre, liberare la ragazza e portarla via con sé. Ma Nerolana non gettava che brutte occhiatacce al suo indirizzo, mentre fra sé e sé pensava: “Quel forestiero vuol solo rubarmi la mia stanza, in cui tanto felicemente vivo!”.
Notte e giorno s’alternavano e il principe Testadilegno, un poco sfiduciato, nondimeno insisteva. Nerolana, invece, dal suo canto lo aveva quasi dimenticato e i ragnetti con cui stava in compagnia le sembravano tutto ciò che il suo cuore, col prezioso diamante incastonato, potesse desiderare. Il principe era mogio e pensava: “Proprio non capisco: nel mio regno ci sono molti cavalli, sterminate praterie, laghetti d’ogni forma circondati da alte piante; lì gli animali pascolano mansueti e i giorni scorrono benedetti dal tramonto che li incorona. Perché allora la mia signora non si decide a scendere?”. Egli non sapeva quanto il servo cattivo frattanto stesse lavorando affinché la ragazza lo scordasse del tutto. “Guarda” diceva quello a Nerolana, additando dalla finestra il principe: “Quel forestiero è tanto possessivo che non vede l’ora di occupare la tua stanza. Non vuol proprio rassegnarsi! Ma noi non gliela cederemo vero, mia dolce principessa? Goditi in pace la tua cameretta: è tanto tranquilla e confortevole! O vorrai abbandonare i tuoi piccoli amici che stanno tessendo tante belle tende solo per te? Non pensi come andandotene li feriresti?”. Con queste ed altre astute parole il servo malevolo persuadeva Nerolana a credere che tutto ciò ch’ella in cuor suo potesse desiderare si trovasse proprio lì alla sua portata, in quell’arida e angusta stanzetta sospesa a un’alta torre, dietro a rigide sbarre di ferro, in mezzo a un fitto fitto bosco.
Passarono i mesi, la ragazza cresceva, la vita fuori dalla torre le sembrava più lontana che mai: nella sua stanza trovava invece tranquillità e pace domestica. Frattanto quei piccoli ragni che abitavano con lei, col volgere del tempo erano cresciuti e avevano a tal punto infittito di tele le pareti intorno che la stanza pareva pendervi dentro: il letto pareva un moscerino pronto per esser divorato. Su consiglio del cattivo servo, ella aveva stretto amicizia con quelle brutte bestie, le quali non mancavano mai di rivolgerle blande parole: “Nerolana, Nerolana, guarda quanto stiamo lavorando!” dicevano “Stiamo tessendo tante belle tende per te, affinché i raggi del sole entrando non ti scaldino troppo ferendo i tuoi occhi belli e tu possa riposare in una stanza sempre più confortevole”. La ragazza d’altronde si rallegrava dando loro confidenza, ignara che quei grossi ragni s’erano messi d’accordo con il servo: alla morte di lei, a quelli sarebbe spettato il cuore per spolparlo, mentre al servo il diamante incastonato fra le costole.
Fuori era estate, ma le tenebre avvolgevano ormai la stanza. Nerolana era diventata assai pallida perché da tempo i raggi del sole non penetravano più le fitte ragnatele che, insieme all’edera galoppante, avvolgevano e ostruivano l’unica finestra aperta sui cieli. La ragazza trascorreva notte e giorno distesa nel letto, mentre i ragni, col pretesto di accudirla, la imbozzolavano lentamente dalla punta dei piedi fino al collo.




Ma in quella triste condizione ella non si lamentava: pensava che i ragni volessero il suo bene e limitandosi a ruotare gli occhi intorno li fermava per contemplare gli ultimi spicchi di parete su cui non fossero ancor distese le loro tele. In quei giorni arrivò a contare fino a duecento e quarantasette diverse sfumature di verde, quelle che notava nelle uniche piastrelle della parete non ancora sprofondate nel grigiore circostante.
Frattanto il principe Testadilegno, da tempo accampatosi lì davanti alla torre, non voleva darsi pace. Da molti mesi ormai non godeva neppure le brutte occhiatacce che Nerolana in un primo tempo gli aveva mandato, ed in cuor suo pensava: “Ahimè, almeno prima mi disprezzava, mentre adesso neppure mi considera!”. Preso dallo sconforto stava dunque per abbandonarla per tornare a quel regno che avventurandosi aveva lasciato. Era sul punto di volgersi indietro, quando in cuore gli balzò il pensiero di fare un ultimo tentativo: “Non sia mai che me ne torni indietro senza neppure aver chiesto il permesso alla mia padroncina: se dunque devo andarmene, voglio sia lei in persona a dirmelo!”. Quindi col cuore martellante si accostò di nuovo alla porta della torre e cominciò a bussar forte: “Aprite, aprite! Voglio parlare a quattr’occhi con voi, signora mia: sono mesi ormai che sto qui ad aspettarvi e non intendo andarmene prima che non siate voi stessa a ordinarmelo!”. Il servo cattivo, sentendo la veemenza di quelle parole, sussultò dentro la torre: la perseveranza del principe infatti lo terrorizzava più d’ogni altra cosa; sapeva che se costui fosse entrato nella sua camera, trovandola in quel degrado l’avrebbe portata via senz’altro, mandando in fumo tanti anni di industriosi inganni. Per non suscitare la sua ira, decise allora di usar con lui parole blande: “Caro principe” disse aprendo lui la porta “la mia padrona sarà presto da te, ma tu aspetta ancora un poco a portarla via. Ha trovato la pace e la tranquillità che da tempo cercava. Dalle tempo, non aver fretta e sarà lei stessa a venirti incontro”. Il principe, al suono gradevole di quelle promesse, riacquistò in un istante tutte le speranze perse nel lungo attendere: era un principe ingenuo e di buona fede e quella volta credette alle parole del servo malvagio. “Sta bene” rispose dunque “così come vuole la padrona. Mi accamperò ancora ai piedi della torre fino a quando non voglia scendere”. Ma ecco che prima che il servo chiudesse lo stipite felicitandosi fra sé e sé per aver guadagnato tempo prezioso, il principe, colto da un odore sgradevole che proveniva dall’interno, ebbe modo di lanciare una fuggevole occhiata al suo interno. Colpirono allora il suo sguardo l’oscuro disordine, la polvere, le ragnatele che pendevano dalle pareti e dei curiosi lumini rossi, i quali soli sembravano rischiarare nella fitta oscurità del pianterreno: erano gli occhi guardinghi e sospetti dei famelici ragni, pronti a divorarlo qualora fosse entrato. Il principe andò via ad un tempo speranzoso e conturbato. Pensava fra sé e sé: “Come può la mia regina trovarsi bene in un posto tanto angusto e maleodorante?”.


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