La cena

La cena


VII

Così egli proseguì: “Si capisce, cari amici, come tutta la nostra industria sia qui vanificata. I nostri amici poveri sono infatti giunti a quelle medesime conclusioni cui invero molti fra noi erano già pervenuti nell’intimo sentire. Qui non si tratta, ben inteso, di questioni di fede o non fede. Che Dio sia o non sia è del tutto secondario. Trattasi invero, e soltanto, per noi, carissimi delegati dei ricchi, di lasciar credere soggettivamente ai signori delegati qui accorsi in rappresentanza dei poveri, che la “questione Dio”, antica come le nostre ingiustizie, rimanga dalla loro parte. E’ infatti questo un argomento incontrovertibile: tanto che i nostri facoltosissimi mandanti -diciamocelo- non potevano trovare un alleato migliore alla propria crudeltà. Infatti, dal momento che (vi prego di seguirmi nel ragionamento) i poveri credono veramente che una giustizia si compia per loro nell’al di là, questo basti per sollazzarci a scapito dei loro figli e delle loro mogli nell’al di qua. Il conflitto di attribuzione delle competenze resta così sanato: a noi ricchi compete di satollarci dei beni di questo mondo; a voi, cari poveri, di quel che sarà dopo. Se chiariamo una volta per tutte, pubblicamente, che qui sta il significato ultimo della polarizzazione fra noi, ecco che non si dovrà più perdere tempo in ordine alla questione dell’ “uguaglianza”. Si è capito infatti che l’uguaglianza non è possibile, non tanto perché non sia effettivamente realizzabile, ma perché è imputabile ai poveri ogni resistenza e contrarietà ad arretrare di un millimetro dai loro celesti privilegi. Sono o non sono loro, amici, i detentori, in definitiva, di tutte le nostre ricchezze future? O non capite che tutto quello che noi con gravi fatiche, astuzie, rinunce, accumuliamo su questa terra, tenendo tranelli ai nostri simili, piegando la parola ai venti dell’opportunità, barando e truffando affinché tutte le cose che escono da noi vi rientrino per altre vie centuplicati; tutto ciò, per quanto grande sia, non lo potremo godere, perché la morte molto presto verrà a togliercelo per darlo ad altri contro la nostra volontà? Ma non pensiate che questa sia la fine, no! Infatti, accordandoci al gran privilegio dei poveri, dobbiamo ritenere che a loro non basti averci invidiati per tutto il corso della vita terrena, affannandosi a reclamare i propri “diritti”, studiandosi di gettare nella nostra coscienza ombre, dubbi e dissidi morali, per il fatto che essi non avrebbero conseguito ciò che noi avevamo. Ora, costoro si soddisfano di ritenerci rei di aver ricevuto già in questa vita quei beni che dovremo perdere eternamente nell’altra a causa della nostra avidità: e noi, amici, dovremmo forse toglier loro questa pia illusione, privandoci di ciò che dunque, per loro stessa ammissione, ci spetta? Saremo dunque noi, cari amici, a sgretolare l’antico privilegio che vuole loro, poveri ed orfani di ogni bene presente, eredi di quei celesti e noi invece, ricchi e possidenti, eternamente privi di ogni sazietà? Guardiamocene invero, perché proprio in esso sta la ragione della nostra superiorità e forza: la loro credulità. Noi, per essere noi stessi, non abbiamo infatti bisogno di trascinare un dio per i capelli. Questi invece, per l’abiezione propria della loro credula meschinità, saranno sempre costretti dall’impotenza o dall’invidia a metterci davanti alle proprie finzioni, chiamandole “dio” e “giustizia” con la ‘d’ e la ‘g’ maiuscola. Diamo loro ragione! “Dio” e la “Giustizia, come sta scritto, daranno a loro i nostri beni, perché noi, lavorando, ci siamo meritati di andare nella perdizione eterna, mentre loro, invidiandoci, si sono conquistati il premio delle nostre fatiche! Noi, levatici all’alba della storia con l’idea di guadagnare più di quanto avessero guadagnato i nostri padri, saremmo in definita responsabili dell’altrui miserie! E per questo, la Giustizia con la ‘g’ maiuscola interverrà per riequilibrare tutto e dare a coloro che hanno poltrito tutto il giorno, ma – è parola di San Paolo – hanno creduto. Questi, amici, dico i poveri, sono invero i nostri nemici. Questi sono gli ideologi da cui ogni assistenzialismo di Stato è scaturito: coloro che confidano nell’assistenzialismo celeste sono i teologi del più fine parassitismo terreno, del ricatto morale che tanto ci ha logorato e diviso nei secoli. Fratelli, io dichiaro con parola sonante: se i poveri hanno il loro guadagno eterno, tutto quel che è in terra, in quanto temporaneo ed effimero, è dunque nostro, e a noi spetta agguantarlo prima dello scadere del tempo che ci è dato”.

Il capo delegati dei ricchi risedette e riprese a mangiare terribilmente composto. Gli invitati, sconvolti, guardavano ciascuno nel proprio piatto senza più muoversi. Anche i camerieri erano immobili ai loro posti. La coltre del silenzio era scesa sopra i presenti.


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