Esame di revisione

Esame di revisione


I giorni 16 e 17 luglio dell’anno 2023 dall’incarnazione del Verbo, brulicando sulla terra nel trasporto dei figli adottivi del mio Signore verso l’asilo, bruciavo, presso lo stesso incrocio, angolo corso Torino via Alimonda, due semafori rossi. Questione di millisecondi, come ebbi modo di appurare di lì a qualche giorno, dinanzi ai due video che m’inchiodavano. Del fatto mi rimasero impresse due cose: l’estremo rigore delle telecamere nel rilevare la pur decimillesimale infrazione – oh, se Prometeo si fosse ficcato il fuoco della tecnica su per lo sfintere! – e lo sguardo severo di contorno, ricevuto allo sportello dove visionavo l’accaduto. Quasi che all’impiegata di Genova Parcheggi non bastassero la duplice stangata pecuniaria e l’umiliante decurtazione. Quasi mi dicesse: “Ora ti è chiaro il perché, mascalzone?”.
Ero giunto al fondo dei miei punti patente. Temetti il baratro, e non sapevo se dirlo alla mia carne. Saggiai pro e contra, e dopo breve e dispotico consulto contro la prudenza del caso, albergante nel mio essere, optai per il silenzio: rientrato in casa, fui come di Catanzaro. Del resto, alberga chi è di passaggio.
Trascorsero quindi alcuni mesi, prima che al Ministero dell’Infrastrutture concepissero il primo altolà alla mia persona. In ottobre il postino mi consegnava un chirografo del Ministro in persona, il quale mi preallertava che una seconda lettera sarebbe pervenuta, assai più minacciosa. A farla breve, ai primi di dicembre giungeva questa, seconda ed ultima, del seguente tenore: “Amico, hai 30 giorni per fissare l’esame di revisione della patente; vedi di superarlo, o te la leviamo”.
Il peso della mia trascuratezza si faceva ora sentire. Avevo innanzi la prospettiva più tremenda: l’impossibilità di recarmi al lavoro! L’impossibilità di galoppare i pargoli dell’Altissimo al nido! Già presentivo gli strali dell’aquila consorte, fresca di caccia sulle alture del Monte Zovetto, pronta coi suoi artigli ad infilzarmi per il fegato e trarmi a sé, fissandomi negli occhioni spauriti, facendomi sentire scoiattolo dentro.

La vedevo poi avventarsi
come arpìa ferita
sopra cesta ripiena
– essenza di liquirizie! –
per affondarvi il labbro dentro.

Dopodiché, insazia, rivolgersi a me torva: “Mi dici adesso come portiamo i bimbi a scuola?”. Cosa le avrei detto, allora? Non dico a risparmiarmi, ma almeno rastremar l’orlo della gran stramenata di coglioni? Nulla che valesse a placarla: contra factum non valet argumentum. Del resto, non amiam la carne nostra anche per questo?


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