Il complotto

Il complotto


VI


Per la verità, caro lettore, dall’altro capo della città l’agente Tramaglino, steso a terra sull’asfalto, era molto di là dal rendere lo spirito al Padre. Accartocciato ed inconsciente, veniva issato con la bocca storta su una barella dell’ambulanza da due volontari col crine raso, alla moda Assira, e gli occhi iniettati di Hashish. Erano due “ex” tossico-dipendenti che, su iniziativa del p.m., stavano sostenendo alcune ore di servizio civile in cambio degli sconti di pena e del metadone resogli settimanalmente dal SerT.
“C’è stata una colluttazione!” riferivano a costoro, non richiesti, i primi sedicenti testimoni, prestatisi a ficcanasare ingombrando i soccorsi. ‘Colluttazione’, a ben vedere, non v’era stata; ma la parola, nell’ideale di molti fra i curiosi sopraggiunti, si confaceva al registro di un’indagine poliziesca, come questa si candidava ad essere sul modello di quelle abitualmente seguite la sera per televisione: quando, tra una scorreggia e l’altra, marito e moglie coi loro piccini, grazie a don Matteo e al commissario Frassica, vengono edotti dagli sceneggiatori della rai nell’arte di vanificare ogni dimensione teologale e civile di preti e forze dell’ordine.
“Lasciate libero il passaggio!” intimava ora ai presenti una vigilessa, sfollando mascherinate di uomini, donne e bambini assiepatisi all’intorno. A seguito dei richiami della centrale operativa, questa era accorsa sul luogo per effettuare i primi rilievi, pascolare le mandrie, smunger la curiosità, metter freno alla noia d’una mattinata tutto sommato qualunque. Pigiata dentro al casco, onde ne uscivan striminzite ciocche tinto arancio, se la prendeva ora con un vecchio coi baffi di rame, la faccia di bronzo e un filo di peluria incolta sul viso, colpevole di ostinarsi nel voler fornire una versione dei fatti del tutto squinternata. Effettivamente uscito per far dispetto alla moglie, a questi non pareva vero di trovarsi sulla “scena del delitto” e poter dire la sua: non aveva visto un cazzo, ma da un quarto d’ora almeno non la smetteva di fornire impressioni non richieste ai passanti circa il chi, il come e il quando, stimolando il proprio ingegno, quasi fosse la vecchia vescica rigonfia. Poi, indispettito dall’incuranza dimostrata dalla donna in divisa, cominciava ad alzare il tiro prendendosela dapprima col prefetto, poi col sindaco e da ultimo minacciandole di scriver “direttamente al presidente Mattarella!”, di cui millantava esser stato suo “più caro compagno di banco!”.
Dopo aver accompagnato costui fuori dagli zebedei per dedicarsi all’esame della scena, l’agente dai boccoli tinto arancio, toltasi finalmente il casco, nello scioglier la criniera attrasse involontariamente i feromoni dei ragazzi dell’ambulanza, intenti a prestare i primi soccorsi al collega in barella. Assediandola con sguardi appetitosi mentre agganciavano distratti i rostri delle cinghie dell’ambulanza intorno alla vita del collega semi-disfatto, ma ancora del mondo, questi, in contemplazione virile del membro del “più bel corpo di Polizia che avessero mai visto”, andavano infittendo le schiere degli spermatozoi pronti al lancio, aumentando il prodotto interno lordo della libido nazionale; tanto che ella, avvertendo su di sé quel loro nobile desiderio di procreare, poiché non amava impigliarsi troppo nella considerazione del proprio fascino o restar prigioniera dell’altrui impressione di sé, nel mostrarsi intenta al proprio lavoro, prese a sculettare proprio davanti ai pannelli posteriori dell’ambulanza. Cominciò così a perlustrare ogni centimetro d’asfalto, cercando indizi che potessero suggerirle qualche cosa circa la natura dell’accaduto. Nel far ciò, secondo quanto appreso a suo tempo sulle dispense oggetto d’esame per entrare nel corpo della polizia municipale, distingueva tra “evidenza e verosimiglianza”, “indizio di prova e di mezzo”, “pigna secca e pigna guasta”: con sua grande meraviglia, tutto ciò che aveva disimparato da tempo, riaffiorava di nuovo tra le crepe del suo intelletto per essere finalmente consultato. Inutilmente.
Stava dunque per cedere sotto il pesante fardello della conoscenza teorica, quando il suo istinto pratico di uoma la guidò sul posteriore dell’autovettura, là dove l’agente Tramaglino mezz’ora prima s’era chinato con la sua penna per redigere verbale, prima di esser colto di spalle. Aprendo il bagagliaio dell’auto e rovistando con occhi già esperti in caotiche borsette, impilato in cima ad un blocchetto di verbali prestampati, distinta e inconfondibile sotto macchia ancor fresca di sangue, trovò e lesse la verbalizzazione dell’evento per come si era svolto, prima dell’interruzione violenta: «Mentre si recava nel suo studio di via Numa Pompilio, senza alcuna ragione di stringente necessità…».
Incapace di trattanere il giubilo a fronte del ritrovamento attirò presso di sé i volontari dell’ambulanza, del tutto incuranti di lasciare a bordo l’agente Tramaglino privo di sensi. Con questi si appostò per un selfie proprio davanti alla prova indiziaria. Poi, divincolate le chiappe dai loro tentacoli, postò subito la foto sul gruppo whatsapp dei colleghi, che dalla centrale operativa si trovarono a commentare immancabilmente il seguente messaggio di servizio: «Mistero risolto!!! …quasi!? 😀 Il soggetto ha lo studio in via numa pompiglio! Ps…ragazzi dell’ambulanza SUUUUUPER!!!».
Ricevuto il messaggio, la centrale si divise fra il gruppo delle colleghe invidiose, presso cui si denigrava la modalità operativa dell’agente, specialmente in riferimento alla borsetta sgargiante lasciata nello spogliatoio, e i solidali, ammiratori e adulatori che, al contrario, facevano a gara per elogiare espressamente via messaggio Loredana (“Lory”, “Dani”, per taluni misteriosamente “Ana”), congratulandosi con lei nei modi più disparati e infantili. “Neanche avessi partorito!” pensava divertita l’agente Pitto, scorrendo nella sua mano messaggi intrisi di cuori, orsetti, pasticcini, manette, fulmini, razzi e, chissà perché, anche dei sottaceti. Poi, dopo aver raccolto di suo pugno non poche testimonianze di persone “accidentalmente affacciatesi” alle finestre dei loro pertugi all’ora dei fatti, si avviò verso la centrale col numero di uno dei due barellieri salvato nel cellulare, l’altro trascritto con calligrafia malferma sul dorso di un bigliettino dal significato inequivocabile, lasciatole cadere romanticamente dentro al casco: «Voglio scopare». Rientrata in centrale, l’agente Pitto stilava in fretta e furia rapporto al superiore, per poter staccare finalmente da turno e andare al mare. A caccia di trasgressori. Di solito, li spaventava soltanto; ma se le piacevano, si lasciava invitare a cena fuori. I trasgressori, insomma, erano la sua trasgressione.
Nel frattempo, rimasti all’interno stazione della Polizia locale, i superiori tentavano di decifrarne il rapporto nell’ufficio del Comandante: “Questa roba è veramente scritta da cani! Mi chiami l’agente che me l’ha scritta…Anzi, no! Me la legga, tenente: veda un po’ lei se ci capisce qualcosa”.
Tenente e comandante erano entrambi invaghiti dell’agente Pitto (chi, per noia o per debolezza, non lo era in quel posto?), manifestandolo però per vie opposte e traverse: il Comandante della stazione di Strada della Torretta, Sergio Dalla Rizza, era solito palesare apertamente il suo desiderio deprecandola davanti a tutti con epiteti davvero immodesti; Antonello Loisio, invece, tenente, la concupiva sommessamente, lasciandole densi bigliettini operativi sulla scrivania. Fu questi a decifrarne subito la calligrafia e ricomporne la sintassi, giacché era avvezzo a spendere le notti sulle risposte sbrigativamente operative di lei.
Ora i due, tenente e comandante, l’uno di fronte all’altro, ragionavano ad alta voce sul da farsi, scambiandosi le più elementari osservazioni:
“Dunque il soggetto ha lo studio colà. Deve certo trattarsi di un qualche professionista scrupoloso”.
“Perché, comandante?”.
“Beh, Antonello, in quella zona io non conosco che avvocati, ingegneri, commercialisti. Gente sul pezzo”.
“Già. Ma se invece si trattasse, chessò, di un semplice mestierante, magari rinterrato nei bassifondi di quei palazzi signorili? Uno che ha la sorte, faccio per dire, di aver ricevuto una grossa opportunità di appoggiarsi allo studio di qualche notabile della zona?”.
“La cosa mi parrebbe dubbia”.
(Così era, invece! Lo “studio pittorico Saponaro”, dove Alberto aveva sistemato la sua galleria di opere e dipinti, era situato nello scantinato dello studio notarile di un parente alla lontana, tanto lontana che la copula dei loro antenati si ebbe al tempo della rivolta dei Vespri di Sicilia, lunedì dell’Angelo 1282. Allora, durante la concitazione della rivolta, “preludio” -secondo i sobillatori del tempo- di un “riscatto prossimo del contado!”, una coppia di progenitori comuni s’era unita sotto le greppie di una stalla, ignorandosi poi vicendevolmente. Dai polloni e ramificazioni dei loro gameti XX e XY, tuttavia, eran discese indicibili schiere di Saponari, atte a popolare ogni angolo d’Italia e d’Italia ogni disfatta. Tra queste ultime, che ancora si scambiavano doni alle feste comandate, c’erano quelle di Alberto e del “cugino notaio” di cui sopra. L’affetto tra le famiglie, come spesso accade tra le famiglie peninsulari del mezzogiorno, in questi settecento e cinquant’anni non era mai mancato: ché anzi, all’occorrenza Alberto ci aveva ricavato, dietro l’impegno preso di fronte al parente di sgomberargli lo scantinato dai ratti stecchiti, un insediamento e arredo provvisorio per la sua carriera di pittore).
Impuntandosi sulle sue prime congetture, insisteva dunque il tenente:
“Mi permetta, comandante, io credo che le cose stiano in questi termini. La collazione del rapporto, del resto, parla chiaro: «…alcuni testimoni, tra quelli alla finestra, hanno riferito di un uomo in preda all’ira, trascurato nel vestire, che dopo esser stato fermato, tentava di giustificarsi… Altri sostengono di averlo sentito inveire contro il poliziotto, accusandolo di complottare contro di lui… Mentre quello si chinava un momento sul bagagliaio dell’auto, all’improvviso il soggetto era visto colpire da tergo l’agente sulla nuca, lasciandolo a terra… Quindi, il soggetto poneva in essere la sua fuga».
Qui il tenente si fermò, perplesso: “…poneva in essere la sua fuga? Non bastava scrivere – “fuggiva?”.
Il comandante lo guardò, stranito a sua volta.
“Ma che importa, su!”.
Il tenente riprese il filo della sua prima impressione:
Mal vestito…gridava al complotto. Le dico, per me è chiaramente uno svitato. Chi uscirebbe, di questi tempi, sapendo di trovar grane, se non qualche spiantato perdigiorno? Che bisogno avrebbero, comandante, quei suoi dottori e ingegneri, avvocati e commercialisti, di andarsene a spasso di venerdì 1° maggio, consci del rischio, delle restrizioni, degli accidenti e dei pericoli da parte del virus e di noi altri?”
“Come sarebbe a dire noialtri?” si accigliò il comandante.
Ma il tenente tirò dritto al punto:
“Io dico che ci troviamo di fronte a un uomo sulla quarantina, dal tenore basso locato, scarso ingegno, cultura infima; guardi, comandante, raramente il mio istinto vescicolare mi prude: ma questa volta, le dico che lo sento (lo sento proprio qui!), inconfondibile, il prurito dell’intuizione da manuale…”
Fece per infilare una mano sotto la divisa per, effettivamente, grattarsi. Ma fu ripreso per tempo.
“Si contenga, tenente. (Che essere!)”.
Questi trattenne la mano, per rieducarla a sé. Poi, curvandosi un poco in avanti verso la scrivania del comando, con aria grave concluse:
“Il profilo dell’uomo: è quello; ne sono certo”.
“Può darsi. Può ben darsi,” convenne meditabondo il superiore in grado.
Nell’ufficio squillò il telefono.
“Dalla Rizza…”.
Tenente e comandante s’incrociarono gli sguardi incerti.
“Arrivo”.
Riattaccò.
“C’è giù il compagno di Tramaglino.”.
Si guardarono di nuovo, ancor più perplessi. Nessuno osava dirlo apertamente. Poi, preso coraggio, il comandante si alzò da sedia, agguantando il berretto.
“Ci mancava questa”.
E uscirono per scendergli incontro.


Fine del sesto episodio. 

(6/11/2020) NdA: Gentile (o scorbutico) lettore, sospendo la pubblicazione del racconto che ti ha portato fin qui. Se tutto andrà bene, potrai terminarne la lettura su questo salotto virtuale per te arredato, entro qualche mese. Se nel frattempo invece sarò morto, dedicami una preghiera: così ti sdebiterai per aver frugato a scrocco tra le mie cose ed esserti divertito a mie spese.

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