Il complotto

Il complotto


V

Come ogni primo venerdì del mese, monsignor Caliandro, vescovo di Brindisi-Ostuni, era in visita presso il seminario arcivescovile della città per fortificare i seminaristi nello spirito, confermare rettore e direttori spirituali nei loro propositi, ingozzarsi alla mensa allestita dalle suore. Queste, giunte dal Bangladesh alcuni mesi prima in occasione di uno “scambio vocazionale”, grazie al quale la diocesi si era mossa per tempo sul mercato per accaparrarsi fresche forze dalle regioni più remote della terra da piazzare nelle cucine del seminario, ancor prima di imparar l’italiano erano state catechizzate sulla severa disciplina culinaria del luogo. Istruite così nell’arte di impastar le mezzemaniche, legare i turcinieddi, glassare i purcidduzzi, passavano la più parte della giornata nei locali cucina, recitando le giaculatorie hindu apprese nelle povere case da cui provenivano; laggiù la loro sorte, interamente provocata e gestita dai genitori, destinava infatti le figlie maggiori ad esser collocate presso futuri mariti, generalmente facoltosi mandriani di bestiame, mentre le minori, riconvertite al cristianesimo dalla religione dei padri, venivano utilmente avviate a una brillante carriera di sguattere al servizio degli ultimi seminaristi rimasti nell’occidente cattolico.
Ora, mentre nel refettorio principale dove seminaristi, rettore e vescovo sedevano per pranzare, venivano servite dalle “sorelle” le Ciabatte di San Patrizio, sorta di biscottoni farciti con ricotta e gianduia, immersi per metà in una crema di liquore di melograno, il telefono prese a squillare persistente nelle cucine. Là, rimasta per attendere alla pulizia delle prime stoviglie, la terza delle tre povere sorelle del Bangladesh, ribattezzata “suor Cristina” da che si chiamava in realtà Saliha Somebody, era dibattuta sul da farsi, non sapendo se il rispondere al telefono fosse occasione di grazia o peccato, dal momento che mezza parola d’italiano non sapeva. Guardando al crocifisso, tuttavia, e confidando da ultimo nella divina provvidenza, impugnò la cornetta del telefono:
“Ah-haa?”.
“Sono…pronto, mi sente?”
“Ah-haa?”.
“…è il Seminario di Brindisi? Parlo con…con chi parlo?”.
“Nooo …ce qui suore!”
“(Le suore!)…senta, cerco Monsignor Caliandro, è lì da voi?”
“…kaliandrooo? …ivescovo?”
“Sì, il vescovo! E’ lì? All’arcivescovado mi hanno risposto che è lì da voi. Me lo può passare? E’ molto urgente.”
“Aspetta…”
Poggiata la cornetta, suor Saliha si diresse, soddisfatta dei suoi progressi, incontro alle consorelle in refettorio, trasmettendo loro la comunicazione in bengali. La più progredita delle quali, deposto sopra il carrello delle portate il vassoio con cui serviva, raggiunse con celere gravità e sussiego il sedile dove le chiappe di monsignor Caliandro sbordavano, e chinatasi lievemente verso il padiglione peloso di Sua eccellenza, segnalò lui la telefonata in corso. Questi, seccato per l’improntitudine del momento -stava infatti leccando con gli occhi la porzione di crema di liquore rimastagli sull’orlo della coppetta- afferrò il bavaglio che gli copriva le vergogne e se lo portò alla bocca, per detergerne gli spigoli. Poi, scusandosi coi presenti, si affannò per divincolare il bagaglio anale dai bracci dell’avito sedile, su cui era stato impagliato qualche secolo prima il fedele tirapiedi di un certo nobil uomo normanno, servitore degli interessi ecclesiastici nel Regno delle due Sicilie. Ma per lasciare nei giovani seminaristi una maggiore impressione circa la propria dignità al servizio della carità operosa, prima di slacciarsi da tavola, il prelato fece mostra di portarsi via cucchiaio e coppetta dentro cui era stato adagiato il biscottone, ora in viaggio tra le fauci e il piloro: e mentre davanti agli occhi di tutti faceva mostra di sparecchiar da sé l’incomodo, portandoselo via senza aspettare di essere servito, in realtà nel corridoio ci infilava segretamente le dita dentro, per tirare su la crema e tutto il resto. Onde, giunto nei locali della cucina con l’anello episcopale ancor sporco di crema pasticcera, la più semplice delle tre hindu, ribattezzata “suor Devota”, chinatasi per riverirlo, nell’atto di baciare l’anulare turgido del suo vescovo, forse per la memoria della fame patita in Bangladesh, o per evangelica parsimonia, non disdegnò di darci una leccata furtiva. Nel ritrarre a sé la mano, Sua eccellenza vide risplender l’anello al suo dito, ben ripulito dal nitore della fede di quell’umile suora, tanto che la benedisse, ordinandole il caffè con la medesima mano, mentre rivolgendosi al telefono, con l’altra ne impugnava la cornetta.
“Spero sia una faccenda di massimo conto. Da chi ho il piacere di esser disturbato?”.
“Monsignor Caliandro? …Sono Alberto!”
“Alberto. Alberto chi?”
“Alberto Saponaro: il pittore! Ricorda? Non molto tempo fa, Lei mi aveva fatto i complimenti per i miei altari… alla cena solidale in parrocchia!”.
“Oh, ma certo! Carissimo. Come va?”. Stava riaffastellando i ricordi, cominciando dalle gambe della moglie: in effetti, le aveva trovate lievemente sghembe.
“Mi trovo in un brutto guaio”.
“Carissimo, ora io (purtroppo) sono con i seminaristi. Può venirmi a trovare? Diciamo, lunedì prossimo?”
“No! Le spiego, Eccellenza: non posso davvero aspettare tanto… io credo di aver combinato un pasticcio. Io non sapevo davvero chi chiamare. Mia moglie è a casa, ma non risponde, e così ho pensato a Lei, alla Sua commissione. Sa, sto lavorando duramente dietro la Madonna: ce l’ho proprio qui davanti…!”.
“Quale commissione? Io non le ho affidato alcuna commissione”.
Il pittore trasecolò.
“…è vero! Ma io, dopo che Lei mi aveva elogiato così, in pubblico, mi ero fatto l’idea che, magari, un giorno… Ma ora non la chiamavo, davvero, per questo! Non importa: mi ascolti, la prego: io oggi stavo venendo qui nel mio studio, ma è successo un pasticcio; sono stato fermato e…non so davvero cosa mi sia preso!”
Nella sua lunga esperienza di pastore, Sua eccellenza monsignor Caliandro, vescovo di Brindisi-Ostuni, aveva imparato a distinguere ogni tipologia di belato da parte del gregge affidatogli. Quello festoso dal malcerto, il tormentato dall’infido, l’infermo dal lamentevole. Ora, dal tono affranto del pittore, comprese trattarsi di qualche cosa di estremamente delicato, a cui pertanto non aveva minima intenzione di dedicarsi, da che il caffè gli stava innanzi fumante. Le tre suore, simili a una trinità domestica, glielo porgevano come un sol uomo sopra un vassoietto argenteo, su cui era adagiata una tovaglietta merlettata, frutto del paziente ricamo di una madre pugliese, affacendatasi nelle ore d’impaziente fedeltà al marito e alla chiesa.
Il vescovo infilò dunque il mignolo nell’ansa della tazzina; le altre dita non ci entravano.
“Alberto, ascolti. Io sono seriamente impegnato oggi”.
“…la prego!”
“Venga lunedì. Prometto che avrà tutta l’attenzione del suo vescovo ai suoi piedi (per così dire)”.
Si portò la tazzina di caffè all’altezza della bocca.
“Eccellenza, mi ascolti…”
“Ora, se non le spiace, io devo veramente andare. Abbia pazienza”.
Protrasse le labbra per suggerne il bollore. Stava dunque per riattaccare.
“Monsignore, io…!”
“Grazie, Alberto, grazie”.
Qui udì le ultime, indelebili parole del pittore:
“Ho ucciso un uomo!”.
Si scottò la gola, quasi perse l’equilibrio. Tazzina e cornetta gli cascarono dalle mani. Le suore, già ai suoi piedi con gli stracci, tentavano di smacchiargli via dai mocassini l’umore del caffè. Senza degnarle di uno sguardo, riacciuffò la cornetta per il filo e se la riportò all’orecchio. Ma non c’era nessuno dall’altra parte.
Alberto Saponaro aveva confessato, prima di riattaccare.
Così cominciava la sua fuga.


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