Il complotto

Il complotto


III

La mattina seguente, Gustavo, il primogenito dei coniugi Saponaro, entrò in cucina prima di tutti per aprirsi il cassetto dove sapeva trovarsi i biscotti. Trovando ronfante il padre, in mutande e con le gambe issate sul seggiolino del fratellino, cercò di aprirsi un varco tra gli interstizi che gli impedivano l’accesso alla zona dispensa, ma perdendo l’equilibrio inciampò tirandosi dietro col cavo il portatile attaccato. Cascando a terra, quello ruppe istantaneamente se stesso e il sonno dei coniugi Saponaro, i quali, spalancatisi nei sensi per il frastuono, intuirono ogni cosa ancor prima di ridestarsi alla sostanza del mondo. A nulla valse il tentativo di Alberto di risistemare ogni cosa sotto la parvenza del vero. Sentendo il pantofolare della moglie farsi presso, nel presentimento di un rito per direttissima a suo carico, trasse a sé il figlioletto con male parole, così da far ricadere su di lui ogni imputazione e distrarre la moglie dalle proprie oggettive responsabilità, peccati e colpe. Ma Scheletra, entrando e vedendo i calzoni del marito mollemente accartocciati in terra ed ogni cosa fuori posto, vide e non credette.
“Non ti sopporto più!” disse, mentre già veleggiava fra gli spigoli della cucina, armandosi di pala e scopetta.
“Buongiorno, tesoro!” esclamò Alberto, mentendo. “Ti preparo la colazione?”.
“No. Me la faccio da me. Non vai al lavoro?”.
“Quale lavoro? …certo: stavo per uscire”.
“In mutande?”.
“Sì: in mutande. Sono stanco di vestirmi, se poi tanto la sera devo sempre levarmi tutto!”.
“Guarda. Non fare lo spiritoso che non è giornata, direi”.
Alberto stava per infilarsi mogio per il corridoio, per inventarsi qualche occupazione di ripiego. Ma il ruggito della consorte lo rinserrò nei ranghi: “Non ci credo. Hai rotto il mio computer!”.
Alberto la guardò da lungi, come un vecchio orso osserva dalla gabbia dello zoo gente che gli lancia noccioline destinate agli elefanti: cose che lui non mangia, né gli piacciono.
“Sei uno strazio, Alberto!”.
La parola fiaccò insolitamente l’animo intorpidito dell’uomo, che da ex buon padre di famiglia si risentì.
“Donna, non ti permetto!”.
“Come? Ieri sei tornato alle 11! E stanotte sei rimasto tutto il tempo davanti al computer! Che cosa vuoi che ti dica? Pensi forse che io sia la tua serva?”.
“Figurarsi se lo penso: lo sei!”
Scheletra avvampò. Alberto se ne accorse:
“E faresti bene a servirmi, visto che non ho ancora preso il caffé”.
Buttarsi all’attacco. Era il suo modo di difendersi. Prese però lui a maneggiare la macchinetta del caffè, facendone cascare un po’ sul lavello.
“Guarda! Sei veramente un cesso! Tutto sporco, dove passi tu”. Approfittare degli errori del marito era invece quello di Scheletra. Soleva inchiodarlo alle sue responsabilità, vere o presunte che fossero.
“Scheletra, datti pace: è solo un po’ di caffè”. Di solito erano vere.
“Che dovrò pulire io, giusto?”.
“Ben detto!” confermò ostilmente il pittore, che non ne voleva sapere di passar dalla parte della ragione.
Un pianto echeggiò per l’anticamera. Antonio, il Saponaro neonato, si era svegliato da pochi istanti, reclamando i diritti dei bebè.
“Vado io?” domandò ipocritamente Alberto.
Quella, senza neanche guardarlo, era già passata via dalla cucina, per raggiungere il figlioletto.
Gustavo, intanto, divertito mangiava i biscotti.
“Hai visto mamma che arrabbiata?”.
Il piccolo annuì.
“Lo dai un bacino al papà?”.
Il piccolo si arrampicò sul suo babbo, contento di quelle attenzioni.
I due giochicchiarono un poco, mentre Scheletra si affacendava dietro i pannolini del secondogenito.
Poi, dopo essersi calmati entrambi, ripresero a litigare.
Verso le 11, tuttavia, Alberto decise che era l’ora di uscire. Non usciva mai per senso del dovere: per quello, se mai, restava a casa ad importunare moglie e figli, stando attento a non condividere i pesi della vita domestica. Nonostante ciò, almeno lì era benvoluto, sapendo intrattenere i suoi “ospiti”, come chiamava moglie e figli, fingendosi un gran re, “il padrone della reggia”. Naturalmente entrambi i coniugi, e forse perfino il maggiore dei figli, erano perfettamente consapevoli del tenore del loculo in cui abitavano: ma dove i loro ideali di benessere dovevano arrestarsi per far posto alla realtà, e con quella stringersi un poco, sopravveniva il conforto di un’ilare fantasia, di cui il pittore era primo banditore, ad imbrigliare gli animi di tutti. Così, in quella famiglia, tra scherzetti e sfuriate, avresti detto che si beccavano l’un l’altro teneramente; o che si amavano sopportandosi, il che equivale. Insomma, si amavano in quell’unico modo che sembra esser dato agli uomini, alle donne e ai loro parti per amarsi: armarsi.
Chiese dunque il permesso alla moglie per uscire col pretesto di fare un po’ di spesa. Scheletra glielo accordò, non senza averlo prima rampognato circa il come, il dove e il quando. Dopo essersi appuntato ogni cosa su un foglietto ed esserselo dimenticato sul tavolo in cucina, Alberto prese risolutamente la via dell’uscio.
Giunto in fondo alla rampa delle scale, da che l’ascensore era rimasto nelle pastoie progettuali di una lite condominiale verbalizzata anni or sono, il cellulare squillò nelle sue tasche. Era la moglie che badava ai figli dall’ultimo piano della palazzina.
“Dimmi, tesoro”.
“Ma non prendi la mascherina?”.
“…no, fa lo stesso. Ormai sono fuori”.
“E se ti fermano?”
“Non mi pare che sia obbligatorio”.
“Ce l’hanno tutti, Alberto, non vorrei che ti facessero storie, non possiamo permettercelo”.
“Stai tranquilla. Non succederà niente”.
“Vabbè…”.
Riattaccarono.
Venti passi fuori dall’androne. Il telefonino squillò nuovamente.
“Che c’è?”
“Hai dimenticato il foglietto”.
Alberto sbuffò, quasi che fosse stata la moglie a non essersi dimenticata di ricordarglielo.
“…dai, lanciamelo giù”.
“No, te lo vieni a prendere!”
“Dai, lanciamelo dalla finestra: son già qua sotto la finestra!”.
Scheletra riattaccò, lasciando il marito nell’indecisione: significava che sarebbe dovuto tornare su, oppure che avrebbe dovuto attender che glielo lanciasse dalla finestra di casa?
Non volendosi lasciar consigliare dalla pigrizia, la quale gli suggeriva di non affannarsi di nuovo su per la via delle scale, si fece muovere dalla prospettiva di riacquistare credito agli occhi della moglie, sì da poterselo poi spendere nel proseguio della giornata. E pensò che siccome lei, conoscendolo, non si sarebbe aspettata di vederlo ricomparire, lui risalendo le avrebbe suonato la porta acquattandosi sul pianerottolo così che, una volta aperto, con un balzo l’avrebbe tirata a sé per imprimerle un gran bacio. Poi, tratto il foglietto dalle sue emozionate dita, senza dir parola, sarebbe uscito lasciandola irretita nell’incanto del suo alito di principe. E come nel pensier si finse così fece, finché giunto affannato sulla soglia e avendo suonato, vide lo spirito della moglie filtrar dalle fessure del portone con grido sonoro:
“Te l’ho appena lanciato giù dalla finestra: dentro un astuccio!”.
Si precipitò dunque giù per le scale, uscendo nello spiazzo antistante sotto la perpendicolare della plausibile traiettoria, ed ivi trovò l’astuccio perfettamente intatto presso il bidone della rumenta. Lo aprì sollevato, al pensiero che la fortuna avrebbe anche potuto farcelo cadere dentro, e vi trovò dentro il pannolino sporco di neonata merda, con un bigliettino ripiegato, riposto con dovizia accanto:
«Lascia perdere. Vado io in pomeriggio. Buttami questo».
“Finalmente libero!” pensò. E cestinato l’unico ed ultimo dovere della giornata, volò via dalla sua Vergine.


1 pensiero su “Il complotto

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *