Ritratto dal contado

Ritratto dal contado



Con tali domande nel cuore, in quegli anni mi accampavo a Costamezzana nei pressi della Pina e della Mari, per far esperienza di vita contadina. Non quella che emergeva dalle ecloghe di Virgilio, dai pastori di Tirteo, dai ritratti campagnoli del Pascoli, forse quest’ultimi i più vicini al realismo che m’aspettava. Desideravo bucare la coltre di nature idealizzate consegnatami da secolari rielaborazioni filosofiche e letterarie, fatte da quanti han sì zappato e concimato molte carte con sudori e fermenti bucolici, ma vissuto mai nel contado. Mi accorsi di lì a poco, al contrario, di quanto la vita di campagna fosse dura, aspra, quanto diffidente la natura verso la mia fatica. Mi resi conto allora quanto il mito del buon selvaggio fosse appunto solo un mito, così come il fatidico “stato di natura” di memoria rousseauiana: espedienti letterari o filosofici in mano a scrittori, strumenti di rara persuasione che poco o nulla avevano a che fare con l’autentica natura. Sulla natura compresi allora come ella non fosse “matrigna” affatto, così come da Leopardi intesa, né “chiara e fresca”, come d’altri pretesa. Osservai invece come ella, se coltivata, divenga ordinata e generosa, ispida e cattiva se la si trascura. Compresi poi che la natura siamo noi. Infatti, se ci coltiva uno spirito buono, allora produciamo frutti buoni e fiori profumati; mentre se ci coltiva uno spirito informe, diventiamo spinosi e disadorni. Osservando queste cose, compresi ancora che il fiore più bello della natura è l’uomo buono, e che l’uomo più bello e profumato è il Cristo, primizia del divino e dell’umano. Inoltre, osservando gli animali che non hanno la parola, ma che pure emettono suono, feci questo pensiero. Ci voleva in natura un animale cui fosse donato il potere di parlare, e ciò per esprimere a nome di tutte le cose create, e specialmente degli animali muti, la lode al Creatore da parte del creato. Pensai infatti come le pietre, gli alberi, le piante, nonché il regno dei funghi, degli invertebrati, e tutte le specie acquatiche, di terra, d’aria o a metà fra esse, nonché i mari, le tempeste, i monti e gli spazi profondi, tutte queste esistenze mute abbisognassero di un imbuto parlante che esprimesse gratitudine per tutti. E trovai che tale imbuto fosse l’uomo, fatto simile a loro, perché tratto da polvere di suolo, cui scintilla celeste donò lo spirito di formar parola, perciò capace di dire a nome loro ciò che tutte costoro direbbero se le creature mute potessero parlare: “Lode all’infinito creatore, che si è degnato nella sua benevolenza di creare ognuna di noi creature, e ciascuna secondo forma, genere o specie, e qual ci volle e diede di essere in qualche modo, anche minimo, resti a gloria della potenza sua; come egli è e ci ha voluto dotare di un qualche essere, così noi lo vorremmo ringraziare per averci fatti e voluti così come siamo; ma poiché gli piacque dare solo agli angeli del cielo e agli uomini della terra il potere di parlare e lodarlo, noi tutte creature, animate ed inanimate, perciò attendiamo che l’uomo e la donna insieme agli angeli loro volgano in ginocchio i prieghi a lui e comunichino a nome nostro che siam contenti d’essere, grati d’esser stati voluti e fatti da lui, e disposti a lasciarci muovere come egli voglia, giacché è amore che tutto conduce a un bello, grande e misterioso fine”.


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